1. L’internazionalizzazione dei diritti umani
Uno dei grandi processi che caratterizzano l’attuale sistema della politica internazionale è quello della internazionalizzazione dei diritti umani. Per tale si intende un processo complesso che si articola in tre parti:
a) il riconoscimento dei diritti innati delle persone e delle comunità umane all’interno di strumenti di diritto internazionale (codificazione);
b) il funzionamento di un apposito sistema internazionale di garanzia;
c) la politica internazionale che ha come oggetto la posizione di norme giuridiche e l’allestimento di apparati permanenti di garanzia e che coinvolge, come attori significativi, gli Stati, le organizzazioni intergovernative (OIG) e le organizzazioni internazionali nongovernative (OING).
Il primo passo verso l’internazionalizzazione dei diritti umani è stato fatto nel 1948 con l’adozione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Tale Dichiarazione costituisce la prima organica enunciazione di principi e valori umani sul piano universale, e ha generato un insieme di norme giuridiche internazionali in materia di diritti umani, che impongono precisi obblighi di adempimento agli Stati. Il riferimento è in particolare ai due Patti internazionali rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, entrati in vigore nel 1976.
E’ questa data che segna, in senso forte, cioè all’insegna della “norma giuridica”, l’inizio dell’era della internazionalizzazione dei diritti umani su scala planetaria.
Nel frattempo sono state adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite numerose altre convenzioni e dichiarazioni internazionali con riferimento a singoli diritti o gruppi di diritti (tra queste ultime, la Dichiarazione dei diritti del bambino del 1959), che hanno contribuito a dare impulso a tale processo.
Si ricordi che la internazionalizzazione dei diritti umani si andava realizzando non soltanto a livello universale – sistema ONU – ma anche sul piano regionale continentale. Il Consiglio d’Europa è stato il primo organismo internazionale ad adottare nel 1950 uno strumento giuridico, per quanto parziale (soltanto i diritti civili e politici), in materia: la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali è entrata in vigore nel 1953, ventitré anni prima dell’entrata in vigore dei due Patti internazionali sopra citati. Recenti sono invece l’adozione da parte dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) della Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo (1969; entrata in vigore nel 1979), e da parte dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981; 1986).
Allo stato attuale, il numero delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani ammonta a 60.
Questo insieme organico di norme, che costituisce il Codice internazionale dei diritti umani, non soltanto contiene una dettagliata elencazione di diritti, ma ha anche dato origine a reali, pur se ancora insufficienti, possibilità di tutela dei medesimi sia sul piano regionale-continentale, sia su quello universale.
Il Codice internazionale dei diritti umani, oltre ad essere un grande contenitore di norme giuridiche, è anche un codice di etica, un paradigma di valori cui fare riferimento per valutare il grado di democraticità dei sistemi politici nazionali e il grado di “umanizzazione” delle culture nelle varie parti del mondo. Esso, riconoscendo le persone e le comunità umane quali titolari di diritti, ha liberato nuova soggettualità umana individuale e collettiva sia all’interno dei singoli Stati sia direttamente sul piano internazionale. Oggi, ognuno di noi ha il diritto-dovere di promuovere il rispetto di tutti i diritti umani e di denunciarne le violazioni ad ogni livello, “dal quartiere all’ONU”.
Un altro dato nuovo è costituito dall’obbligo per gli Stati di preparare periodicamente dei rapporti sullo stato di attuazione, al proprio interno, delle norme sancite nei trattati internazionali in materia di diritti umani. In altre parole, gli Stati hanno l’obbligo di “rendicontare” e di “giustificare” in sede internazionale quanto avviene al loro interno.
Tutto ciò ha consentito di superare definitivamente il vecchio principio statualistico della “domestic jurisdiction”, che sanciva la non ingerenza negli affari interni di uno Stato[2].
Ragioni di spazio non consentono di addentrarci nel complesso e variegato sistema di garanzie internazionali di tutela dei diritti umani[3]. Questi brevi cenni introduttivi relativi al processo di internazionalizzazione dei diritti umani ci torneranno utili per commentare la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, che è l’ultimo accordo giuridico adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989.
2. La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia
a) Il lavoro preparatorio del Comitato dell’ONU.
Alla Convenzione si è arrivati, come prima ricordato, dopo un lungo periodo di riflessione iniziato nel 1959 con l’adozione da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite della Dichiarazione dei diritti del bambino. La vicenda è ormai tipica del sistema delle Nazioni Unite: prima viene adottata la raccomandazione solenne, poi la convenzione contenente norme giuridiche vincolanti per gli Stati che la ratificano.
La Dichiarazione si compone di 10 articoli, che enunciano alcuni fondamentali diritti da riconoscersi a tutti i bambini senza distinzioni di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o di altro genere. Fra questi ricordiamo il diritto del bambino a godere di una speciale protezione; ad avere, fin dalla nascita, un nome e una cittadinanza; alla sicurezza sociale; all’amore e alla comprensione; all’istruzione, a fruire di uno speciale trattamento educativo e sanitario nei casi in cui sia fisicamente o psichicamente minorato; ad essere protetto contro ogni forma di negligenza, di crudeltà e di sfruttamento; ad essere educato in uno spirito di comprensione, di tolleranza, di amicizia, di pace e fraternità universale.
Nel 200 anniversario della Dichiarazione, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite dichiara il 1979 Anno Internazionale del Bambino.
Nel 1978 il rappresentante della Polonia nella Commissione per i diritti dell’uomo dell’ONU presenta la prima proposta di convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia.
Nel 1979 l’Assemblea generale decide di insediare un Gruppo di lavoro ad hoc, con sede a Ginevra, con il compito di elaborare un progetto di convenzione partendo dalla proposta della delegazione polacca. Tra il 1979 e il 1989 il Gruppo si riunisce una volta all’anno.
Nel 1983 si costituisce un gruppo di 26 organizzazioni nongovernative interessate a partecipare alla redazione del progetto di convenzione[4]. Tali organizzazioni presentano al Gruppo di lavoro dell’ONU un documento nel quale illustrano le proposte emerse durante i loro incontri. Il Gruppo di lavoro valuta positivamente i risultati raggiunti da questa iniziativa e fa proprie molte delle proposte contenute nel documento, inserendole nel testo del progetto di convenzione.
Nel marzo 1986 il Gruppo di lavoro adotta un progetto di preambolo e di 21 articoli[5]
Sempre nel marzo 1986, su iniziativa del Presidente del Comitato Italiano per l’UNICEF, Arnoldo Farina, viene istituito il Comitato scientifico dell’UNICEF[6], con l’importante funzione di preparare quello che può essere considerato il contributo italiano al progetto di convenzione, dal momento che supplisce al vuoto creato dall’assenza dell’Italia ai lavori dell’apposito Gruppo dell’ONU[7].
Quest’ultimo si è riunito, per mettere a punto il progetto definitivo, dal 28 novembre al 9 dicembre 1988 e dal 21 al 23 febbraio 1989. Quest’ultimo incontro è stato possibile grazie anche all’aiuto finanziario dell’UNICEF
E’ soltanto in questa fase conclusiva che una delegazione dello Stato italiano partecipa a Ginevra alle sedute del Gruppo di lavoro[8].
Da un’attenta lettura del Rapporto del Gruppo di lavoro[9], presentato alla 45esima sessione della Commissione dei diritti dell’uomo, emergono una certa incompetenza e insensibilità dei membri della delegazione italiana, i quali non hanno presentato nessuna proposta migliorativa del progetto di convenzione.
L’amaro commento che si può fare al riguardo è che mentre nel nostro paese si parla molto di violenze e abusi nei confronti dell’infanzia e della necessità di tutelare concretamente i diritti del bambino (telefono azzurro, tutori pubblici dell’infanzia a livello regionale, campagne pubblicitarie), in sede internazionale lo Stato italiano si è reso praticamente latitante nel corso dei lavori preparatori della prima convenzione internazionale in materia.
Altro appunto negativo si riferisce al fatto che gli “esperti” governativi italiani, una volta accodatisi al Gruppo di lavoro dell’ONU alla fine del suo mandato, hanno completamente ignorato il robustissimo contributo scientifico elaborato dall’apposito Comitato dell’UNICEF-Italia e presentato da Arnoldo Farina al ministro degli Esteri.
b) I diritti riconosciuti.
Veniamo ora al testo della Convenzione adottato dall’Assemblea generale. I diritti sanciti sono i seguenti: alla vita, a un nome e a una nazionalità, a conservare la propria identità, a mantenere relazioni personali e contatti diretti regolari con entrambi i genitori, di lasciare qualsiasi paese e di far ritorno nel proprio paese, di esprimere liberamente la propria opinione, alla libertà di associazione e di riunione pacifica, alla privacy, al godimento dei più alti livelli raggiungibili di salute fisica e mentale, di beneficiare della sicurezza sociale, ad un livello di vita sufficiente, ad avere un’educazione, nel caso in cui il bambino appartenga a una minoranza, a non essere privato della propria vita culturale, al riposo e allo svago, a partecipare liberamente alla vita culturale e artistica, ad essere protetto contro lo sfruttamento economico, ad essere protetto contro l’uso illecito di sostanze stupefacenti, ad essere protetto contro ogni forma di sfruttamento sessuale e violenza sessuale, a non essere sottoposto a torture, maltrattamenti, a punizioni crudeli, inumane o degradanti, ad essere trattato in un modo che risulti atto a promuovere il suo senso di dignità e valore nel caso in cui il bambino sia riconosciuto colpevole di aver violato la legge penale.
Diciamo subito che la speranza di molti era che con tale Convenzione si riconoscessero, perlomeno ai bambini, i cosiddetti diritti di terza generazione: il diritto alla pace, il diritto all’ambiente, il diritto allo sviluppo, facendo fare così un significativo passo avanti alla normativa internazionale in materia di diritti umani.
Il diritto alla pace racchiude in sé tutti gli altri diritti, ed assicura il fondamentale diritto di ogni essere umano alla vita. Il riconoscimento di tale diritto, essendo la pace una variabile che non può essere ridotta al singolo contesto nazionale, e superando quindi la giurisdizione domestica di tutti gli Stati, avrebbe legittimato i suoi titolari, e cioè gli individui, a chiederne a qualsiasi Stato, non solo a quello di appartenenza, il rispetto. Contemporaneamente, gli individui sarebbero stati legittimati essi stessi a svolgere un ruolo attivo direttamente a livello internazionale. In altre parole gli individui avrebbero visto finalmente riconosciuta la loro soggettività internazionale “irenica”.
Per quanto riguarda la tutela dell’ambiente naturale, indispensabile per garantire al bambino il diritto a vivere in un ambiente sano e non inquinato, la Convenzione contiene dei riferimenti che sono del tutto inadeguati rispetto alla complessità del problema e agli interventi necessari per una sua rapida soluzione.
All’articolo 24, ad esempio, gli Stati Parti riconoscono il diritto del fanciullo al godimento dei più alti livelli raggiungibili di salute fisica e mentale, ma l’impegno che sì assumono per garantire la piena realizzazione di questo diritto, attraverso la messa in opera di una serie di “misure appropriate”, è del tutto inadeguato. Tra tali misure vi è quella intesa a “combattere le malattie e la malnutrizione nel quadro delle cure mediche di base mediante, tra l’altro, l’utilizzo di tecniche prontamente disponibili e la fornitura di adeguati alimenti nutritivi e di acqua potabile, tenuto conto dei rischi di inquinamento ambientale” (corsivo dell’autore). Credo che la generalità di questo impegno e la marginalità in cui viene relegato il problema ambientale siano di tutta evidenza.
Il secondo e ultimo riferimento alla questione ambientale è contenuto nell’articolo 29, dove si afferma che “Gli Stati Parti concordano sul fatto che l’educazione del fanciullo deve tendere a: … e) inculcare nel fanciullo il rispetto per l’ambiente naturale”.
Occorre far notare che l’educazione del bambino a rispettare l’ambiente e la natura, ad evitar sprechi e consumi inutili, non può non passare attraverso un’adeguata presa di coscienza da parte degli educatori (famiglia, scuola, strutture extra-scolastiche, ecc.), sotto l’impulso di una nuova e più efficace legislazione (internazionale, nazionale e regionale) e all’interno di una più informata e più maturata cultura a tutela dell’ambiente.
Quello che manca nella Convenzione non è soltanto il riconoscimento esplicito del diritto all’ambiente come diritto umano fondamentale, ma anche l’impegno degli Stati ad elaborare politiche realmente alternative che possano contribuire in maniera determinante a fermare la progressiva degradazione dell’ambiente naturale e quindi a garantire la sana crescita fisiologica e psico-pedagogica del bambino e di tutti gli esseri umani.
Il problema dello sviluppo, infine, è anch’esso preso in considerazione senza voler mettere in discussione nulla e senza voler rinunciare a nulla. Così, all’articolo 6 si legge: “Gli Stati Parti si impegnano a garantire nella più ampia misura possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo”; oppure all’articolo 27 si legge: “1. Gli Stati Parti riconoscono il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita sufficiente atto a garantire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale”.
Anche in questo caso non si è voluto riconoscere il diritto allo sviluppo come diritto umano fondamentale “in virtù del quale ogni persona umana e tutti i popoli sono legittimati a partecipare e a contribuire e a beneficiare allo sviluppo economico, sociale, culturale e politico, in cui tutti i diritti umani e tutte le libertà fondamentali possano essere pienamente realizzati” (art. 1, parag. 1, della Dichiarazione sul diritto allo sviluppo). Non si è voluto riconoscere nella persona umana il soggetto centrale dello sviluppo, in quanto titolare e beneficiario del diritto medesimo. Nella Convenzione adottata non c’è nemmeno l’impegno degli Stati Parti a realizzare politiche nazionali e internazionali di sviluppo, indispensabili per garantire il rispetto non solo del diritto allo sviluppo, ma di tutti i diritti umani e, in primis, del diritto alla vita. Mi sono soffermato in particolare su questi tre diritti perché tutti si riconducono al fondamentale diritto alla vita e se non c’è vita non ha senso parlare del diritto dì associazione o del diritto all’educazione.
Non riconoscendo nemmeno ai bambini questo insieme di diritti, gli Stati hanno voluto ancora una volta difendere la loro sovranità e la priorità dei loro interessi economici e militari.
Un altro neo della Convenzione è costituito dall’articolo 38 che affronta il problema del coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati o comunque in situazioni caratterizzate dall’uso della violenza. Il paragrafo 2 di tale articolo recita: “Gli Stati Parti devono adottare ogni possibile misura per garantire che nessuna persona in età inferiore ai 15 anni prenda direttamente parte alle ostilità”.
Ciò conferma quanto già stabilito dalla legge umanitaria internazionale, che proibisce appunto la partecipazione ai conflitti armati dei bambini che non hanno compiuto il quindicesimo anno di età.
All’interno del Gruppo di lavoro dell’ONU, si era creata una forte opposizione che chiedeva di elevare l’età minima a 18 anni, tenendo conto anche del fatto che all’articolo 1 della Convenzione il bambino è considerato tale fino al diciottesimo anno di età.
La norma inserita nella Convenzione è in pieno contrasto con i più elementari principi ormai acquisiti in materia di tutela dei diritti umani. Essa è assolutamente inaccettabile sia dal punto di vista giuridico e umanitario, sia dal punto di vista etico, mentre trova una giustificazione di tipo soltanto militare. E’ qui affermato il principio di sovranità degli Stati che, per attuarsi, ha bisogno anche dei minori in armi!
Giova sottolineare ancora una volta che gli Stati non hanno accettato di riconoscere ai bambini il diritto alla pace come diritto umano.
Particolarmente significativo al riguardo è un documento elaborato dall’organizzazione internazionale nongovernativa Defence for Children-International (DCI), sulle violazioni dei diritti del bambino nei conflitti armati. In questo documento si denuncia, tra l’altro, che durante la guerra Iran-Irak i mezzi di comunicazione governativa avevano promosso una martellante propaganda allo scopo di convincere i bambini ad arruolarsi nelle forze armate e che negli Stati dove non esiste una età minima al reclutamento, la pressione della propaganda induce i bambini a mentire sull’età per poter essere arruolati. L’indagine svolta da chi ha rilevato che è soprattutto nei conflitti interni che i bambini minori di 15 anni partecipano alle attività belliche entrando nei gruppi della resistenza. Tutti i rapporti sui “bambini alla resistenza” in Afghanistan, America Centrale, Libano e taluni paesi africani, non sono riusciti a provocare nessuna azione concreta da parte di governi o di istituzioni internazionali che andasse ben oltre la reazione emotiva e momentanea che faceva seguito alla lettura dei rapporti medesimi.
Nel documento di Defence for Children-International oltre che dei “bambini soldati” si parla anche delle violazioni dei diritti fondamentali di cui il bambino non armato è vittima durante i conflitti. Vengono riportate alcune impressionanti notizie sulla morte di bambini causate da violenze fisiche inflitte dalle forze armate in Guatemala, El Salvador, Cile, Marocco, Irlanda del Nord, Tailandia, Namibia, Argentina (ovviamente durante il regime militare) e Libano.
Mi pare superfluo ogni ulteriore commento sull’occasione perduta, o sulla colpevole omissione, di cui si sono resi responsabili gli Stati.
Mi sia consentito, infine, attirare l’attenzione sull’articolo 24, che riconosce il diritto del bambino al godimento dei più alti livelli raggiungibili di salute fisica e mentale, per sottolineare come in esso prevalga il principio della programmaticità rispetto a quello della precettività, nel senso che l’obbligo di adempimento degli Stati è informato a criteri di gradualità e quindi di discrezionalità (che evidentemente è più politica che giuridica). Al paragrafo 4 di detto articolo si legge: “Gli Stati Parti si impegnano a promuovere e ad incoraggiare la cooperazione internazionale allo scopo di garantire progressivamente la piena realizzazione del diritto riconosciuto in questo articolo. A questo proposito i bisogni dei Paesi in via di sviluppo saranno tenuti in particolare considerazione”.
E’ appena il caso di far notare che il principio della programmaticità informa il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, mentre quello della precettività caratterizza il Patto internazionale sui diritti civili e politici.
c) Le garanzie.
Per quanto riguarda il sistema di garanzie previsto dalla Convenzione, questo si limita all’istituzione di un Comitato per i diritti del fanciullo con il compito di “esaminare i progressi compiuti dagli Stati Parti nella realizzazione degli obblighi da essi contratti in virtù della presente Convenzione” (art.43). Il Comitato sarà composto da 10 esperti che agiranno a titolo personale e non in rappresentanza dei rispettivi Stati di appartenenza.
In base all’articolo 44, gli Stati Parti sono obbligati a presentare al Comitato un rapporto “sulle misure da essi adottate per applicare i diritti riconosciuti nella presente Convenzione e sui progressi compiuti nella realizzazione di questi diritti”: il primo entro due anni dall’entrata in vigore della Convenzione, i successivi ogni cinque anni.
Il “rapporto iniziale” deve contenere una descrizione della situazione generale del proprio paese con riferimento ai diritti sanciti nella Convenzione e dei principali programmi e delle istituzioni impegnate nella promozione e nella tutela dei diritti del bambino. Nel rapporto si deve specificare anche se tali programmi e istituzioni sono migliorati a seguito dell’entrata in vigore della Convenzione.
I “rapporti periodici” a loro volta, devono contenere: a) tutte le nuove misure legislative, giudiziarie, politiche o di altro tipo adottate, dopo la presentazione del rapporto iniziale, al fine di far rispettare i singoli diritti riconosciuti nella Convenzione; b) i fattori e le difficoltà che influiscono sul rispetto dei diritti riconosciuti nella Convenzione; c) le risposte alle domande e alle osservazioni formulate dal Comitato esaminatore sul rapporto iniziale; d) le osservazioni relative alle questioni sollevate nei confronti degli Stati dalle istituzioni specializzate; e) le misure prese per migliorare la cooperazione e il dialogo con il Comitato per i diritti del bambino.
Sotto il profilo dell’enforcement, l’importanza di questi rapporti risiede nel fatto che l’adempimento all'”obbligo di rendicontazione”, costringendo i governi a fornire informazioni e giustificazioni direttamente in sede internazionale sullo stato di attuazione interna delle norme contenute nella Convenzione, assolve ad una funzione di pubblicità – che possiamo definire di tipo intergovernativo – e quindi di reciproco controllo fra Stati, relativamente ad una materia che fino a ieri era gelosamente custodita nel santuario delle singole giurisdizioni domestiche.
Si sperava tuttavia che le procedure di tutela dei diritti riconosciuti nella Convenzione fossero analoghe, se non migliori, a quelle previste dal Patto internazionale sui diritti civili e politici e dal Protocollo facoltativo ad esso allegato. Tenuto conto del fatto che la Convenzione riguarda appunto i diritti del bambino si pensava fosse possibile far progredire l’intero codice internazionale dei diritti umani o, comunque, non fare dei passi indietro, come purtroppo è avvenuto.
Non si è riconosciuta la competenza del Comitato dei diritti del bambino a ricevere ed esaminare comunicazioni nelle quali uno Stato parte “denunci” un altro Stato parte che non adempia agli obblighi sanciti nella Convenzione, così come non si è riconosciuta la competenza del Comitato a ricevere ed esaminare comunicazioni “individuali” provenienti dai genitori o dai tutori del bambino i quali denuncino violazioni commesse dallo Stato, di cui il bambino è stato vittima.
Non è neppure stata accolta la proposta, formulata dal Comitato scientifico dell’UNICEF, di impegnare gli Stati Parti ad istituire al loro interno l’Ufficio del tutore pubblico dell’infanzia, con il compito di promuovere e sostenere le azioni per la protezione dei bambini.
Evidentemente questo non significa che sia preclusa l’istituzione di tale ufficio all’interno di quegli Stati che lo volessero. E’ il caso dell’Italia, dove molte regioni hanno già adottato apposite leggi al riguardo.
Può essere utile segnalare la legge della Regione Veneto con la quale viene istituito l’Ufficio di protezione e pubblica tutela dei minori (L.R. 9 agosto 1988, n. 42). Le funzioni attribuite dalla legge all’Ufficio sono le seguenti: a) selezionare e formare persone disponibili a svolgere attività di tutela e di curatela e dare consulenza e sostegno ai tutori o ai curatori nominati; b) vigilare sull’assistenza prestata ai minori ricoverati in istituti educativo-assistenziali; c) promuovere, in collaborazione con gli Enti locali, iniziative per la prevenzione e il trattamento dell’abuso e del disadattamento; d) promuovere iniziative per la diffusione di una cultura dell’infanzia e dell’adolescenza che rispetti i diritti dei minori; e) esprimere pareri sulle proposte di provvedimenti normativi e di atti di indirizzo riguardanti i minori che la Regione intende emanare; f) segnalare ai servizi sociali e all’autorità giudiziaria situazioni che richiedono interventi immediati di ordine assistenziale o giudiziario; 9) segnalare alle competenti amministrazioni pubbliche fattori di rischio o di danno derivanti ai minori a causa di situazioni ambientali carenti o inadeguate dal punto di vista igienico-sanitario, abitativo e urbanistico.
Il pubblico tutore è eletto dal Consiglio regionale e dura in carica cinque anni. L’Ufficio ha l’obbligo di presentare, entro il 31 dicembre di ogni anno, una dettagliata relazione sull’attività svolta.
3. Conclusioni
La Convenzione non è l’optimum se comparata con altri strumenti internazionali di tutela dei diritti umani. Per i bambini si sarebbe dovuto e potuto fare di più: riconoscere tutti i diritti umani delle varie “generazioni”, statuire esplicitamente il principio di cogenza immediata delle norme di adempimento, rafforzare ulteriormente il sistema delle garanzie internazionali dei diritti umani.
La Convenzione è evidentemente un minimo comune denominatore delle varie culture nazionali in materia di protezione dell’infanzia. Essa va pertanto considerata come un punto di partenza minimale ma sicuro (“certezza” del diritto internazionale), per un percorso che si spera possa essere veloce.
All’interno di questo percorso un ruolo fondamentale è quello delle istituzioni educative e delle associazioni operanti a fini di promozione umana.
Per le prime, la Convenzione internazionale per i diritti del fanciullo costituisce l’occasione per introdurre, vorrei dire con il carattere di specializzazione, la tematica dei diritti umani all’interno dei programmi di educazione civica, i quali a loro volta devono essere trasversali a tutte le discipline insegnate. Si tratta di partire dai diritti del bambino per arrivare sino alla comprensione dei problemi e delle strutture della società planetaria della famiglia umana.
In questo particolare momento in cui si pongono anche drammaticamente i problemi della convivenza multietnica e multiculturale, l’educazione ai diritti umani assume carattere di assoluta priorità.
Quanto alle associazioni nongovernative, la nuova Convenzione internazionale offre loro innanzitutto ulteriore legittimazione per lo svolgimento dei ruoli educativi e di concreta solidarietà che le caratterizzano.
Al fine di orientare istituzioni e politiche, esse devono possedere un elevato grado di competenza e specializzazione e devono sapersi coordinare a livello locale, nazionale e internazionale.
La forza delle organizzazioni nongovernative e quindi la loro capacità di influire sulle scelte dei governi, sono strettamente legate alla loro progettualità e coerenza ai valori propugnati: il potere delle OIGN, che è alla fine un potere di mutamento, è essenzialmente idea power e value power.
Quanto più si specificano e si rendono giuridicamente vincolanti i valori umani all’interno di norme internazionali, tanto più stimoli e spazi si offrono a tali organizzazioni.
Note:
[1] Testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 18.11.1988 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
[2] Cfr. F. Mezzalama, La politica dell’Italia nel campo dei diritti umani alle Nazioni Unite, in “Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli”, anno 1, n. 2, 1987, p. 51ss.
[3] In argomento, v.A.Papisca, Democrazia internazionale via di pace. Per un nuovo ordine internazionale democratico, Milano, Angeli, 1988 (IIa ed.), pp, 104-118.
[4] Le 26 organizzazioni internazionali nongovernative partecipanti al gruppo sono le seguenti: Amnesty Internazional, Association Internationales des Magistrats de la Jeuness et de la Famille, Bureau International Catholique de l’Enfance, Comité Consultatif Mondial de la Societé des Amis, Commission Internationale de Juristes, Communauté Internationale Baha’ie, Conseil International des Femmes Juives, Conseil Internationale de l’Action Sociale, Défense des Enfants-International, Fédération Abolitioniste Internationale, Fédération Internationale des Femmes des Carrieresj uridiques, Fédération Internationale des Femmes des Carrières Libérales et Commerciales, Fédération Internationale des Femmes Juristes, Fédération Internationale des Assistants Sociaux et des Assistantes Sociales, Human Rights Internet, Ligue Musulmane Mondiale, Mouvement International ATD-Ouart Monde, Organisation Mondiale pour l’Education Préscolaire, Radda Barnen International, Radda Barnen Suède, Redd Barna (Alliance “Save the Children”), Service Social International, Société Anti-Esclavagiste pour la Protection des Droits de l’Homme, Union Internationale des Organismes Familiaux, Union Internationale de Protection de l’Enfance, Zonta International.
[5] Alle riunioni del Gruppo di lavoro, che erano aperte a tutti i membri della Commissione dei diritti dell’uomo, hanno partecipato i rappresentanti dei seguenti paesi: Algeria, Argentina, Australia, Austria, Bangladesh, Belgio, Brasile, Bulgaria, Repubblica Socialista Sovietica di Bielorussia, Cina, Cipro, Etiopia, Francia, Repubblica Democratica Tedesca, India, Giappone, Messico, Norvegia, Perù, Senegal, Sri Lanka, URSS, Regno Unito, USA, Venezuela.
I paesi non membri della Commissione dei diritti dell’uomo che hanno partecipato come osservatori alle riunioni dei Gruppo di lavoro sono i seguenti: Canada, Danimarca, Finlandia, Santa Sede, Iraq, Marocco, Olanda, Nuova Zelanda, Polonia, Svezia e Svizzera.
L’Organizzazione Internazionale dei Lavoro (OIL) e il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) erano rappresentati al Gruppo di lavoro da loro osservatori.
Le organizzazioni nongovernative che hanno inviato osservatori al Gruppo di lavoro, oltre a gran parte di quelle indicate alla nota 3, sono le seguenti: Associated Country Women of the World, Defence for Children International Movement, Four Directions Council, International Committee of the Red Cross, World Association of the School as an Instrum